Finding Rome (Italiano)
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Un racconto del mio primo viaggio a Roma nel 2015. Traduzione di Anthony Molinaro e Alessio Gorga.
Sentii lo “swoosh” delle porte scorrevoli che mi solleticava i leggings mentre uscivo dalla dogana ed entravo tra la folla della sala d’attesa. Mi congratulai con me stessa per aver superato facilmente e tranquillamente il controllo passaporti con l’agente della dogana, mentre i parenti e gli amici degli altri stanchi viaggiatori cercavano di guadagnare una miglior posizione, allungando il collo per scrutare una a una le persone che passavano dalla porta satinata. Era rumoroso, incomprensibile e stranamente emozionante non sentire neanche una parola che fossi in grado di capire, nonostante le 13 settimane di studio dell’italiano e un’ingente fortuna di “linglots” sull’applicazione Duolingo. Lanciai un’occhiata ai volti degli altri passeggeri e alzai lo sguardo a “ore 11:00”, proprio lì dove mi sarei aspettata di trovare il cartello “Meeting Point” se la mappa dell’aeroporto che avevo googlato prima fosse stata attendibile.
E infatti, eccolo lì – un alto palo arancione con il cartello “Meeting Point” raffigurato opportunamente in grandi caratteri. Era inconfondibile. Così come la faccia di fianco, l’unica che avevo riconosciuto. Indossava la sua maglietta preferita, una t-shirt blu in edizione limitata celebrativa del famoso corridore Steve Prefontaine. Ed era sulle punte dei piedi, sbracciandosi come se stesse dirigendo il traffico aereo, invece di limitarsi a salutare con un “ciao” la sua ragazza che metteva piede per la prima volta a Roma.
Era la mia prima volta a Roma, in Europa, anzi la prima volta che viaggiavo fuori dagli Stati Uniti da oltre vent’anni. Il mio ragazzo, al contrario, sin da bambino aveva fatto avanti e indietro dall’Italia, dove tuttora vivono ancora molti suoi parenti. Nonostante tutto, durante i miei dieci anni come avvocato avevo viaggiato molto. Potrei preparare la valigia per un soggiorno di dieci giorni in un’ora, superare i controlli di sicurezza in 7 minuti, e trovarmi seduta in prima classe sull’aereo (upgrade, non pagato) “googlando” la mia destinazione prima che il “gruppo 1” venga imbarcato. Sapevo che la chiave per un viaggio perfetto era un programma perfetto.
Quindi, nelle settimane precedenti al mio primo viaggio in Europa, sfogliai dozzine di articoli e post di blog che pretendevano di contenere preziosi consigli di viaggio per i principianti. Creai un “Phrases for Rome” documento Google a cui aggiungevo, con l’aiuto del mio ragazzo, frasi nuove ogni volta che mi venivano in mente qualcosa che avrei voluto dire, come “hai visto il mio telefono?” o “mi piace il tuo vestito!” oppure “ho conosciuto Anthony sull’app OKCupid!” Guardai un documentario su Netflix sui più famosi chef in Italia per arrivare armata di consigli per ogni pasto e per poter esaminare la scena culinaria. Mi lamentai del fatto che la mia banca non offrisse ancora la funzione “chip and PIN” sulle mie carte di debito o credito, mentre richiesi subito una Visa dopo aver letto che la mia carta Amex sarebbe stata praticamente inutile in Italia. Lodai il mio operatore di telefonia mobile per avere il piano tariffario “globale” più avanzato, il quale mi permetteva di usare il mio numero di cellulare statunitense, inviare SMS e fare le chiamate mentre viaggiavo in tutta Italia.
E, naturalmente, avevo una borsa piena di caricabatterie per il mio computer, il mio iPad, il mio iPhone, il mio Garmin e le mie cuffie wireless, oltre a tre adattatori di corrente per assicurarmi di essere sufficientemente “carica” per immortalare su Instagram tutti i passi sui sampietrini del mio viaggio.
Inutile dirlo, mi sentivo abbastanza soddisfatta di me stessa mentre accompagnavo la mia valigia al “Meeting Point” assegnato dove finalmente mi tuffavo, piena di emozioni, tra i caratteri accoglienti della maglietta “Prefontaine” di Anthony. Ovviamente, anche questo momento era stato pianificato. Anthony era partito per Roma 13 giorni prima di me, e in quelle due settimane scarse, presi in considerazione tutte le possibili reazioni adatte a un incontro all’aeroporto nella città più romantica del pianeta, che andavano dal dare semplicemente il cinque a un abbraccio forte mentre roteavamo come una coppia di pattinatori. Alla fine, decisi che un bell’abbraccio e un bacio sarebbero stati sufficienti.
In viaggio verso la nostra prima tappa – la casetta sul mare di sua zia a Torvaianica – controllai il mio cellulare per assicurarmi che T-Mobile avesse mantenuto la sua parola. Effettuai l’accesso a Facebook senza problemi e trovai un nuovo messaggio di mia madre. Omma, una rifugiata nordcoreana e immigrata di prima generazione negli Stati Uniti, non era mai stata neanche lei in Europa. Il suo messaggio era breve:
“Stammi bene. Buon viaggio e ci vediamo presto.
Fino ad allora, tu e Anthony fatemi tanti bei ricordi.”
Eravamo in piedi al centro della Cappella Sestina e, asciugando il sudore dal mio viso mentre scattavo di nascosto una foto del soffitto con il mio telefonino, tutto quello a cui riuscivo a pensare era come Michelangelo fosse diventato quasi cieco a causa della vernice che gocciolava nei suoi occhi, sdraiato sulla schiena per tre anni consecutivi. C’erano almeno 40 gradi fuori e dentro faceva ancora più caldo – e nonostante il mio desiderio di autoconvincermi di sentire un po’ di venerazione per il momento, era semplicemente troppo afoso per avere i brividi o qualsiasi altra reazione fisiologica indotta dallo stupore di stare nello stesso posto in cui era stato uno dei più bravi e importanti artisti di tutti i tempi. O almeno, così mi dissi. Scattai un’ultima foto storta della “La Creazione di Adamo” e mi diressi verso l’uscita, prima che la stizzosa guardia vaticana potesse confiscare il mio cellulare.
A ogni angolo, l’arte, l’architettura, il cibo, e gli indimenticabili monumenti storici apparivano dal nulla, estendendosi intorno a me con tutta la decadenza di una gelateria scintillante, ma in realtà tutto quello che volevo fare era tenere la mano del mio ragazzo seduta davanti a un potentissimo ventilatore. Dopotutto, ero nella “città dell’amore”. I racconti di Hollywood mi avevano praticamente assicurato una buona dose di tutte le romanticherie: baci e abbracci al Pantheon, lunghe passeggiate per le strade al chiaro di luna, magari anche una o due serenate del mio ragazzo italiano.
Tutti coloro che avevano fatto anche solo un respiro in qualsiasi parte d’Europa mi avevano offerto consigli su cosa aspettarmi. Mia cugina di soli 21 anni, la quale aveva studiato in Spagna per un’estate al liceo, aveva predetto che sarei rimasta sopraffatta da quanto tutto fosse antico in Italia.
Il giorno prima di visitare il Vaticano, i cugini di Anthony ci portarono a Tivoli, dove passeggiammo tra le rovine di Villa Adriana.
Dopo circa 400 metri di strada sterrata, prima di entrare nella tenuta, i visitatori vennero invitati a vedere una rappresentazione 3D della villa estesa, la quale a un certo punto era composta di 30 edifici su più di 250 acri (tra cui diversi palazzi, templi, biblioteche, e alloggiamenti per gli schiavi). A quanto pare, all’imperatore Adriano non piaceva governare dalla capitale, preferendo la sua sontuosa e vivace villa. Ora, però, le colonne solitarie spuntavano dal terreno per non reggere nulla. Le arcate portavano a buchi giganti nella terra, lasciando almeno un bisbiglio di testimonianza da cui si potevano cogliere le fronde della nostalgia. In fondo alla villa, rimanemmo entrambi colpiti dalla piscina perfettamente conservata, la falange di divinità di marmo liscio che si rifletteva sulla superficie silenziosa, come se sorvegliasse l’acqua dal versare tutti i segreti nascosti di questo luogo straordinario.
I resti di una cupola – una grotta artificiale – si trovavano all’estremità della piscina. Osservai Anthony mentre frugava tra le rovine dei suoi antenati, chiedendomi se provasse anche solo un leggero legame col passato. Pensai a come mi sarei sentita esplorando le reliquie dei miei avi in Asia e determinai che se lui avesse scelto di prendere parte o meno a qualche ricordo collettivo in quel momento era irrilevante. L’enormità di quello che pendeva nel vuoto intorno a noi cancellava qualsiasi distinzione tra l’identità italiana e coreana.
Eravamo bambini, in cerca di fantasmi in una cava di pietre silenziose.
Presto avrei scoperto che l’Italia non era solo edifici antichi, belle statue e dipinti famosi. Per un capriccio, dopo aver visitato il Vaticano, io e Anthony decidemmo di fare una mini vacanza sull’isola di Ponza. Non ne avevo mai sentito parlare prima, il che rafforzò solo ciò che avevo letto quando la cercai su Google: “L’isola segreta meglio custodita d’Italia!” Anche se spesso si pensa che sia seconda a Capri, per qualche motivo, non è il magnete turistico che è la costa Amalfitana. Sembrava perfetta! La mattina successiva, cercai su Tripadvisor l’albergo più bello, i ristoranti più buoni, e il modo migliore per arrivarci, e misi insieme un itinerario di 24 ore per noi due, la cugina di Anthony e il suo ragazzo.
Dopo un breve viaggio in treno per Anzio, salimmo a bordo di un aliscafo (fortunatamente dotato di aria condizionata), che ci portò sull’isola in soli 70 minuti. Ponza era pittoresca, quasi fiabesca, con i suoi edifici rosa, gialli e blu incastonati tra dolci colline verdi e montagne accidentate. L’acqua era così blu, che se non fosse stata per la sua impossibile chiarezza (si poteva vedere fino al fondale), sarebbe potuta essere una tinta.
La navetta per il nostro albergo ci stava già aspettando quando arrivammo. Carlos, un isolano, guidò per le strade minacciosamente strette con il tipo di confidenza che presto avremmo imparato essere la norma a Ponza. Dopo aver girato l’ennesimo curva a gomito a un’altitudine che non avrei voluto nemmeno controllare, venimmo bruscamente accolti da una meraviglia geologica di sconcertante bellezza. Ponza era un gioiello, con la sua costa scintillante e l’avorio bianco come l’osso che brillava sul suo dorso vulcanico.
Quella sera, prima di cena, ottenemmo i posti in prima fila per un tramonto che in confronto fece sembrare insignificante il soffitto della Cappella Sistina e tutte le statue accigliate di Villa Adriana.
Chiamammo un taxi per raggiungere il ristorante. Il nostro tassista, soprannominato “Super Peppe”, era inquietantemente allegro e guidava con una sorta di zelo matto di cui avrei potuto fare a meno, soprattutto quando la visibilità cominciava a diminuire. Affossai le mie unghie nella coscia di Anthony, ricordandomi che non avevo paura dell’altezza. Dopo circa cinque minuti di viaggio, venimmo fermati da una jeep che si era rotta in mezzo alla strada. L’autista sembrava perplesso e i passeggeri erano in piedi attorno al veicolo, inutili e senza la più pallida idea di che cosa fare. Imperterrito, Super Peppe saltò fuori dal taxi, e senza dire una parola alle quattro infelici creature che ora lo fissavano come se gli fosse cresciuta la coda, salì sulla jeep, accendendola mentre dava qualche colpo di acceleratore. In pochi secondi, spostò l’auto sul ciglio della strada, uscì dalla jeep mentre il motore stava ancora rombando, applaudì ironicamente in faccia all’incredulo autista e saltò di nuovo sul nostro taxi. “Viva Ponza!!!”, ci urlò (o forse alla luna), sbattendo il pugno fuori dal finestrino.
Sotto di noi, l’isola si ridusse a un azzurro scuro, preparandosi a entrare nel … no, ad assumere la forma di un tipo di sogno. Mi appoggiai ad Anthony, senza scuse o esitazioni, desiderando che non ci svegliassimo mai.
A 36 anni, mi sono chiesta se ci fosse qualcosa di sbagliato nel volere le stesse cose che volevo quando avevo 16 anni. Si dice che non si è mai troppo vecchi per avere le farfalle nello stomaco, ma le farfalle sono difficili da catturare tra le videoconferenze, i viaggi d’affari, le lunghe giornate in ufficio, almeno 45 minuti di cardio da moderato a intenso, e l’invisibile, ma incessante “calamita” del cellulare. Io ero un “pezzo grosso” in un grande studio legale, e lui era un grande pianista e professore di musica. Abitavo in un appartamento di un grattacielo lungo il Lago Michigan e lui in un condominio di due camere nella zona di South Loop. Eravamo entrambi molto impegnati, con orari che ci costringevano a un corteggiamento improvvisato il più delle volte. Anthony e io stavamo insieme da un anno, principianti in amore, ma esperti nella vita, con tutti gli ostacoli dell’età adulta – le bollette della televisione, i mutui e la connessione del mio maledetto router wireless – che mi facevano vergognare un po’ di quanto desiderassi tenergli la mano in pubblico o sentirlo dire ad alta voce il parolone amore.
Ma, in Italia, avevo la licenza di desiderare tutte quelle cose senza arrossire.
Il viaggiare ha la tendenza a far emergere quello che io chiamo la “persona vera”. C’era un caldo e un’umidità disumani e camminammo ovunque. Ci fermammo a Campo de’ Fiori per poter fotografare strati su strati di rose, peonie e ortensie impilate come file di romanzi pavoneggianti. Invece di prenotare nei ristoranti più consigliati di Yelp, mangiammo in qualunque trattoria o ristorante si trovasse in giro appena avevamo fame. Lontano dagli alloggi a cinque stelle a cui mi ero abituata, dormivamo sul divano letto estraibile del minuscolo monolocale di sua cugina nella zona più rumorosa di Trastevere. Di notte, l’interminabile gorgoglio del gabinetto rotto ci cullava nel sonno, mentre gli amanti si scambiavano segreti sui gradini di Piazza Trilussa.
A un certo punto avevo allentato la presa sul “Viaggio Perfetto” a Roma e, in cambio, l’amore si aggirava sotto un boschetto di fedeli pini a Tivoli, sbirciò da una finestra del Vaticano, e si tuffò a testa bassa in una piscina turchese trasparente a Ponza. Non erano i luoghi a rendere memorabile la mia vacanza romana, ma l’uomo con cui li avrei visti che mi avrebbe permesso di seguire il consiglio di mia madre. Attraversammo Ponte Sisto, ci sedemmo nei taxi e prendemmo l’aliscafo tenendoci per mano. Ci furono troppi baci da ricordare, ma uno in particolare mi rimase impresso sulla bocca: quello che mi rubò durante il nostro secondo viaggio nella casa al mare. “Sono così felice che tu sia qui”, sussurrò una notte a Trastevere, mentre i festaioli facevano baldoria fuori dalla nostra finestra.
La nostra ultima notte a Roma, tutti i suoi cugini si riunirono nell’appartamento di sua zia per una cena fatta in casa, il miglior pasto che ho consumato durante il nostro soggiorno in Italia. Restammo a lungo, dopo che i lampioni illuminarono i volti e le nostre risate, cercando di dimenticarci della nostra attesa partenza. Fu in quest’ultima notte a Roma, cogliendo le lucciole negli occhi di Anthony mentre ripeteva “l’estate prossima” alla sua famiglia, che scoprii esattamente cosa significasse “qui” – non a Roma, ma al suo fianco. Non avrei potuto cercare su Google o Yelp o in qualche modo tracciare il percorso verso questa destinazione più di quanto avrei potuto indovinare la forma degli occhi di sua zia finché non li vidi che mi guardavano con la stessa sorprendente tenerezza che mi aveva affascinato a casa, a Chicago.
Ho sempre pensato che il colpo di lasciare Roma sarebbe stato attutito dal ritorno a casa con Anthony. Ma l’atterraggio a Chicago fu molto più doloroso di quanto potessi immaginare. La soffice nebbia che ci avvolgeva a Ponza, il cuore ribollente che batteva con noi a Trastevere, persino la vuota bellezza che ci legava a Tivoli, tutto questo lo sentivo scorrere tra le mie mani – non importa quanto forte li stringessi insieme – come l’acqua di Torvaianica non appena uscivo dall’aeroporto O’Hare. Anthony aveva appuntamenti da rispettare ed e-mail da scrivere. Io dovevo andare in ufficio la mattina successiva, con oltre 100 messaggi non letti che affollavano la mia casella di posta. Le nostre strade si separarono per disfare le valigie, fare il bucato e archiviare i ricordi per fare di nuovo spazio alla “vita quotidiana”.
Era troppo sperare di essere stati cambiati, per sempre, da Roma?
Qui l’acqua del Lago Michigan non è blu e limpida come quella di Ponza. Ma fu lungo le rive del Lago Michigan dove mia madre imparò a parlare inglese e proprio dove Anthony si allena ogni anno per la maratona di Chicago. È il lago in cui mi sveglio ogni mattina, il lago in cui guardo la notte, quando le luci arancioni brunite del molo mi portano a dormire.
Anthony è appena entrato nel mio appartamento per la cena di questa sera. Lo avvolgo tra le mie braccia e penso:
“Sono così felice che tu sia qui”.
– Joanne